Giugno 1974: quando Sanon mi portò a conoscere Haiti
di Gino Cervi
«Ci sarà da ridere già con Haiti».
«Io rido già adesso, Arp» si agitò Bibì: «Verde, ma rido. Sai cos’ho detto al buon Spina? Tu terzino bianco marcare Sanon, ala veloce negra. Sanon andarti via e fare gol. Mi ha risposto: tu pur di sfottermi faresti carte false, chi sarebbe questo Sanon che arriva da Haiti e va via al fisico che sono? E allora io: se non credere, badron Spina, tu mettere due svanziche pregiate in gioco, tu disturbare tuo portafoglio, okay?».
«Mi è simpatico, Spina. Ma se scommette con te perde anche il numero sulla maglia» rise Arp.
Il 15 giugno 1974, all’Olympiastadion di Monaco di Baviera, l’Italia del pallone gioca la sua prima partita ai Mondiali di Germania. Ci arriva da vicecampione del mondo, dopo il secondo posto in Messico, sconfitta solo da Brasile di Pelé in finale, ma assurta nel cielo degli eroi della mitologia calcistica dopo “el partido del siglo”, il 4-3 in semifinale alla Germania Ovest, di cui si parla tanto proprio in questi giorni, ricorrendo l’anniversario pieno dei 50 anni di quella indimenticata, e indimenticabile, sfida. Ma ci arriva acciaccata di polemiche e onusta di tramontante gloria: dei “messicani” è rimasta mezza squadra – Facchetti e Burgnich, Mazzola, Rivera e Riva – in buona parte mal sopportata dalla restante compagine. Zio Uccio, il commissario tecnico Ferruccio Valcareggi, già bersagliato quattro anni prima per le polemiche sulla staffetta Mazzola-Rivera e, soprattutto, sui “sei minuti” soli concessi al Golden Boy, eroe dell’Azteca, nella finale contro il Brasile, ci arriva anche lui stremato per le tensioni e l’aria pesante che si respira dentro l’inquietante ritiro di Ludwigsburg. Quel posto, un castello di destini incrociati, forse segnati, viene narrato in tutta la sua straniante cupezza nelle pagine del romanzo di Giovanni Arpino, Azzurro tenebra (1977), che ha per argomento proprio la sventurata spedizione della nazionale in quella Coppa del mondo.
Proprio da quelle pagine sono tratte le battute del dialogo che avete letto all’inizio di questo articolo, una decina di righe che oggi non sopravvivrebbe alla pulizia del “politically correct” di qualunque editing. Ma che fotografa perfettamente l’attesa di quella partita.
Nel giugno del 1974 avevo 10 anni e quelli sono i primi Mondiali di calcio che ricordo con cognizione e memoria. Io sono tra quelli che misurano le stagioni della vita “ogni quattro anni”, al ritmo cioè delle Coppe del mondo di calcio, e volendo, e accorciando le scadenze, delle Olimpiadi. Quindi colloco gli eventi della mia esistenza posizionandoli in relazione a una finale o a un record del mondo. Di quel giugno ’74 ricordo perfettamente l’attesa della prima partita degli azzurri. Quello fu anche il mio primo incontro con “il mondo Haiti”: da quel momento la parola HAITI entra nella mia personale enciclopedia di ragazzo.
Haiti e il calcio mondiale s’incontrano anche loro per la prima volta. Sarà anche l’ultima: la rappresentativa caraibica infatti non parteciperà più a una fase finale della Coppa del Mondo. Non sarà una partecipazione gloriosa, come dimostrano le tre sconfitte e i 14 subiti contro i soli 2 realizzati. Ma sarà una partecipazione memorabile, almeno per quel che riguarda proprio la partita d’esordio contro l’Italia.
Quelle battute di dialogo del romanzo di Arpino mettono in scena due inviati al seguito del Mondiale. Arp è il protagonista, il cui nome svela facilmente l’identità con l’autore; l’altro, Bibì, è Bruno Bernardi, storico giornalista della “Stampa”, scomparso solo venti giorni fa. Entrambi scrivono per il quotidiano torinese: Bernardi si occupa della cronaca, Arpino, con licenza letteraria, del “colore”, ovvero del contesto entro il quale si svolge l’evento sportivo.
Gran parte del romanzo si svolge al ritmo serrato di questi dialoghi, pieni di giochi di parole e di incalzanti batti-e-ribatti che lo fanno assomigliare a una partitura teatrale. In quello scambio, Bibì riferisce di aver messo avvisato Luciano Spinosi, “Spina”, il terzino della Juventus e della Nazionale, della presenza nell’undici haitiano di una guizzante ala, Emmanuel Sanon. Sanon veniva presentato come “La Freccia Nera”, con non molta fantasia da parte della cronaca sportiva – sei anni prima era il titolo di un fortunato sceneggiato TV, ispirato a un romanzo di Stevenson e interpretato da una diciottenne Loretta Goggi e da uno storico “cattivo” come Arnoldo Foà – ed era effettivamente la punta di diamante della nazionale caraibica. Lo resterà anche negli anni a venire: Sanon ancora oggi è il giocatore haitiano che vanta più presenze in Nazionale (100) e soprattutto più reti segnate: 47.
La profezia di Bibì – ex post, nella finzione letteraria di Arpino – si avverò. Il primo tempo era trascorso con la sterile pressione degli azzurri e con gli haitiani arroccati nel loro fortino difensivo presidiato dall’estremo difensore vestito con uno sgargiante maglione giallo. Scriveva Gianni Brera: «Ha nome Francillon il loro portiere: vola a gogò, come si dice: e quando non para viene colpito».
Dopo neppure un minuto del secondo tempo, una respinta di testa di Nazaire, capitano haitiano salta la mediana azzurra e arriva sui piedi di Vorbe che non ci pensa due volte a lanciare un rasoterra nella metà campo italiana. È l’arco che incocca la “freccia”. Sanon brucia in velocità Spinosi che invano cerca di abbrancarlo e quindi si presenta a tu per tu con Zoff. Per il numero 1, imbattuto da 1133 minuti, non c’è scampo: gli haitiani festeggiano come se avessero vinto il Mondiale; gli azzurri, in maglia bianca con fascia orizzontale, impietriscono.
E impietrisco anch’io davanti alla TV. Quelli non sono solo i primi Mondiali per Haiti, ma anche i miei. Li ho aspettati almeno quattro anni da quando ho soltanto sfiorato il precedente di Mexico 70, con partite giocate a un orario ancora proibitivo per i miei sei anni. In tutta risposta la Nazionale sta perdendo con gli ultimi arrivati.
Per fortuna passano solo 6 minuti – anche qui 6 minuti, guarda caso il destino… – e arriva il pareggio. Per mio giubilo a firmarlo è Gianni Rivera, idolo e capitano del mio Milan, che solo un anno addietro era stato beffato all’ultima giornata nella fatal Verona che a lungo rimarrà indimenticabile e assoluto grande dolore di tifoso. Quel maggio di dodici mesi prima era probabilmente iniziato a calare il sipario sulla sfolgorante carriera del Golden Boy, che a Monaco di Baviera gioca qui il suo quarto Mondiale, a trent’anni, ma che agli occhi dei più sembra un fuoriclasse in precoce disarmo. Come scrive all’epoca sempre Brera, facendomi imbestialire, l’Abatino è così atleticamente impresentabile che sembra “inciampare nelle primule”. Eppure è lui a calciare a rete un batti e ribatti in area e a ristabilire il pareggio. Passano una dozzina di minuti, ed è un altro milanista a ristabilire le gerarchie in campo: Romeo Benetti batte dal limite, il pallone incoccia sullo stinco di Auguste e spiazza Francillon. Tra il vantaggio azzurro e il definitivo 3-1, messo a segno da Anastasi, va in scena la clamorosa reazione di Giorgione Chinaglia, centravanti della Lazio campione d’Italia, nei confronti di Valcareggi che ha chiamato la sua sostituzione a vantaggio proprio di Anastasi. Giorgione manda ripetutamente a quel paese l’allenatore con un inequivocabile gesto della mano.
La polemica nel post-partita soverchia ogni commento e analisi tecnica che evidenzierebbero i limiti di una nazionale giunta all’appuntamento mondiale già sfiatata e stremata. Lo dimostreranno le due seguenti partite – il pareggio 1-1 in rimonta con l’Argentina e la sconfitta 1-2 contro la Polonia, molto più evidente del risultato di misura – che sanciranno l’eliminazione al primo turno del torneo. Haiti dal canto suo, verrà travolta per 7-0 dai polacchi e perderà 4-1 contro gli argentini, con Sanon ancora a segno.
Il ventitreenne attaccante di Pétionville, che all’epoca militava nella società haitiana del Don Bosco – compagine dalle dimensioni oratoriali, e non solo per via della denominazione – con quelle lusinghiere prestazioni al Mondiale si guadagnerà un contratto con il Beerschot, squadra belga di Anversa nella quale militerà per ben sei stagioni, con uno score di tutto rispetto: 142 partite e 43 e la vittoria nella coppa nazionale nel 1979, stagione in cui è compagno di squadra di un altro eroe della Coppa del Mondo 1974, il portiere polacco Jan Tomaszewski.
Dopo altre sei stagioni nella Soccer League statunitense, con la maglia prima dei Miami Americans e poi dei San Diego Sockers, Sanon chiuse la sua carriera nel 1986. Dopo essere stato per una breve stagione (1999-2000) selezionatore della nazionale haitiana, Sanon è precocemente scomparso nel 2008, a soli 57 anni, per un cancro al pancreas.
Per rendere omaggio alla “Freccia Nera”, Emmanuel Sanon, l’imprendibile ala che mi portò un pomeriggio di giugno del 1974 a conoscere Haiti, e «una calotta di ghiacci», lascio di nuovo la parola a Giovanni Arpino e al suo Azzurro tenebra:
Rientravano in campo, il largo muggito lungo le curve si quietò nell’attesa. L’arco del cielo tendeva a vaghi colori d’un verde cinerino, quasi inutili apparivano le gigantesche incastellature dei fari accesi. Arp ebbe appena il tempo di abbassare lo sguardo e un segmento era stato proiettato alla ragnatela nera, un compasso d’eleganza che sbisciava sull’erba, solo e felice, le gambe d’ebano e il torso coordinati nell’affondo improvviso, Spina cercò di abbatterlo, scavalcato roteò su se stesso tuffandosi poi per abbrancarlo con una mano a ludibrio di ogni sapienza stilistica, ma Sanon era ormai via, disperatamente San Dino usciva, costretto ad allungarsi e toccar terra per chiudergli lo spazio, il tocco lieve di Sanon lo evitò, nessuna angosciosa sospensione di fiato in quell’immenso silenzio poté impedire al pallone di adagiarsi in rete. Una calotta di ghiacci precipitò sullo stadio.